giovedì 9 giugno 2011

Intervista a M Tabe (Marco Tabellini)


Caro Marco questa è la seconda volta che facciamo due “chiacchiere” assieme. La prima volta abbiamo parlato della compilation Guitars An Anthology of Experimental Solo Guitar Music da te curata per l’etichetta discografica indipendente “Setola di Maiale”; ora siamo qui per il tuo nuovo lavoro, il Guitar Improvvisation Project con Alchimistica. Approfittiamone per presentarti meglio ai lettori del Blog: come mai ti firmi “M Tabe”? Come è nato il tuo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suoni o hai suonato? Qual è il tuo background musicale?

M Tabe è semplicemente l’abbreviazione di Marco Tabellini – mi è capitato e mi capita di usarla senza ragioni particolari; a volte la preferisco semplicemente perché è più minimale e immediata. Come tanti, ho iniziato a frequentare la chitarra perché un amico suonava cover rock e volevo farlo anch’io. Dopo qualche anno di rock più e meno ortodosso, avendo conosciuto musiche diverse, jazz d’avanguardia e classica contemporanea, ho iniziato uno studio più personale e consapevole – ma non per questo disciplinato – delle potenzialità dello strumento, usando da subito l’improvvisazione, “preparando” lo strumento con oggetti vari e sperimentando tecniche e gesti eterodossi in combinazione con il vocabolario chitarristico tradizionale. Altri strumenti: in privato studio il clarinetto, ma esclusivamente per diletto e arricchimento personale. Non amo particolarmente il polistrumentismo.

Tu hai già realizzato due dischi di improvvisazioni chitarristiche con Setola di Maiale: “15 improvisations for solo electric guitar” e “12 improvised compositions for solo electric guitar”. Non sei quindi nuovo a cimentarti su questi percorsi accidentati, ma che significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? L’improvvisazione sembra ormai essersi guadagnata la reputazione di essere un genere musicale a se stante, indipendente dal jazz, dalla contemporanea…

L’improvvisazione è uno strumento, non ha significato in sè. Nel mio caso, non avendo un diploma in composizione – cosa che mi auguro di ottenere, nella prossima reincarnazione – è stata un metodo abbastanza naturale ed efficace, soprattutto in solo, per approfondire il mio studio nel modo più immediato possibile; e con “immediato” non intendo tanto “veloce”, quanto “non mediato da… (preoccupazioni di varia natura)”. Improvvisare mi è servito anche per affrontare alcuni piccoli paletti e limiti derivati dal mio background “di genere”.
Eseguendo una serie di brani/étude scritti negli ultimi anni, poi, mi sono accorto che nella ripetizione di frasi e gesti codificati si può trovare un grado di improvvisazione spesso molto più suggestivo di quello che si ottiene limitandosi a suonare materiale eterogeneo ogni volta – è interessante contemplare le minuscole differenze (veramente impreviste) fra più versioni dello stesso pezzo o addirittura dello stesso suono, o gesto.
È verissimo che da qualche decennio si è consolidato un “genere improv”, legato spesso a un’interpretazione approssimativa e qualunquista della pratica improvvisativa – Berio ne parla in modo ineccepibile e definitivo nell’Intervista sulla musica (pagg. 89-94); per quanto mi riguarda, mi trovo più d’accordo con quelle 5 pagine che con tutto il libro di Derek Bailey.

Derek Bailey era alla disperata ricerca di una improvvisazione non “idiomatica”, di un qualcosa assolutamente lontano da qualsiasi altro linguaggio o base musicale esistente; alla fine anche il suo modo di improvvisare è diventato un marchio di fabbrica, il suo stile… come definiresti il tuo stile?

Tralasciando l’indiscutibile influenza su numerosissimi chitarristi e musicisti, penso che Bailey sia sopravvalutato, o perlomeno valutato in modo poco obiettivo – quindi anche il discorso sulla sua influenza andrebbe rivisto in modo critico.
Un qualsiasi estratto di una sua performance, o album, presenta elementi interessantissimi dal
punto di vista della tecnica e dell’aneddotica strumentale – penso all’uso di armonici inusuali e
modulati sfruttando il ponte a cordiera, il ricorso a intervalli estremamente ampi, i ritmi spezzati, i contrasti fra certi elementi rumoristici e aperture liriche; il problema è che nell’arco della sua produzione ha sostanzialmente riproposto sempre le stesse cose, risultando carente in fattori per me importantissimi, come tensione, freschezza, dinamismo, curiosità. Paradossalmente, quello “stile” che si voleva non “idiomatico” risulta in pratica un altro idioma: un esperanto magari affascinante, ma alla lunga statico e prevedibile, e incapace di reggere il confronto con linguaggi più longevi e stratificati (consolidati grazie al contributo di diversi grandi compositori e interpreti). Per quanto riguarda il mio stile, lo definirei grezzo, teso e austero.

Nel 1968 Derek Bailey chiese a Steve Lacy di definire in 15 secondi la differenza tra improvvisazione e composizione. La risposta fu “In 15 secondi la differenza tra composizione e improvvisazione è che nella composizione uno ha tutto il tempo di decidere che cosa dire in 15 secondi, mentre nell’improvvisazione uno ha 15 secondi” .. la risposta di Lacy era troppo ironica o corrisponde a verità?

Forse un po’ sardonica. La composizione offre la possibilità di articolare un pensiero musicale in modo approfondito, riflettendo, provando diverse soluzioni, attingendo a risorse di non immediata reperibilità, ecc.; l’improvvisazione sfrutta un gesto dagli esiti non completamente prevedibili, potenzialmente rischioso, che genera tensione attiva e può lanciare la composizione istantanea in una direzione inaspettata e magari più interessante. Ma è importante ricordare che i due approcci non sono esclusivi; composizione e improvvisazione possono benissimo essere impiegate insieme, con infinite possibilità di dosaggio degli ingredienti. Ovviamente, tutto sta nelle capacità del musicista, e dipende da ciò che vuole ottenere. (Ci ho messo 15 minuti a comporre questa risposta.)

La tua Guitar Improvvisation a volte suona quasi .. giapponese .. ci sono dei riferimenti alla musica tradizionale gagaku o alle musiche di Takemitsu?

Credo che il riferimento sia soprattutto al primo pezzo, nel quale uso la chitarra preparata e rendo chiaramente tributo alla musica dell’estremo oriente.
Sono appassionato di cultura Giapponese, e mi piace molto la musica tradizionale – più che del
gagaku, sono un grande estimatore della musica per shamisen, taiko e koto; sento molta affinità per la qualità anti-ipnotica di questo strumenti, il modo in cui il silenzio risalta e fa risaltare ogni nota o colpo nella sua discrezione timbrica e ritmica.
Riguardo Takemitsu, conosco solo alcuni suoi lavori – per quanto apprezzi quello che ho sentito, non posso dire di conoscerlo abbastanza bene, e non c’è alcun riferimento alla sua musica, né ritengo possibile una sua influenza su quello che ho fatto finora.

Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Un artista ha il dovere, oltre che l’opportunità, di tener conto del lavoro dei suoi predecessori e di alcuni contemporanei per affilare il proprio stile nel modo più opportuno, sviluppando una “cassetta degli attrezzi” che permetta di lavorare il materiale offerto dal tempo in cui vive. Nello specifico, un odierno chitarrista o compositore per chitarra non può permettersi di ignorare tanto Francesco da Milano quanto The Book of Heads. Passato, presente e futuro non sono necessariamente monoliti impermeabili e imperscrutabili, da ordinare in fila (la Storia musicale intesa in rispettoso senso cronologico), ma materiale passibile di interpretazione, critiche, modifiche, tradimento. L’artista stabilisce delle gerarchie, in base alla propria sensibilità. Non visione uniforme, quindi, ma gerarchica, caleidoscopica e sintetica.
Il rischio di labirintite discografica è reale, ma non credo sia imputabile alla varietà (opinabile)
dell’offerta. La responsabilità è individuale.

Più che una domanda .. questa è in realtà una riflessione: Luigi Nono ha dichiarato “Altri pensieri, altri rumori, altre sonorità, altre idee. Quando si ascolta, si cerca spesso di ritrovare se stesso negli altri. Ritrovare i propri meccanismi, sistema, razionalismo, nell’altro. E questo è una violenza del tutto conservatrice.” … ora .. la sperimentazione libera dal peso di dover ricordare?

Porre questo “altro” come oggetto di interesse finale mi sembra una forma ancora maggiore di
violenza, o perlomeno eccentricità forzata, frutto di condizionamento concettuale. La componente razionale, quella che può interessarsi di altri pensieri, rumori, sonorità e idee è variabile e influenzabile, soprattutto dall’educazione, dall’istruzione, dall’ambiente culturale. Tuttavia la musica dovrebbe portare anche allo smarrimento di quel “sè stesso”, colpendo e illuminando la componente universale dell’essere umano, in comunicazione con il corpo (sensibile al ritmo), con l’energia vitale e con la consapevolezza della mortalità; questo non significa che debba essere musica primitiva o riproporre solo materiali già assimilati e interiorizzati. Quello che andrebbe ritrovato e riconosciuto è nell’individuo, e va solo stimolato con sempre rinnovata precisione. Altri pensieri, rumori, sonorità e idee non come fine della ricerca, quindi, ma come mezzo: quali di questi posso elaborare per “scremare” la trascurabile contingenza storico-culturale e arrivare a una musica più netta e radicale? Ogni artista risponde a questa domanda in modo diverso.

Qual è il ruolo dell’Errore nella tua visione musicale? Dove per errore intendo un
procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...

L’errore di cui parli è fondamentale. Nel mio caso, la ricerca di una forma, di una solidità o verità della composizione (istantanea o premeditata) si scontra con i limiti del mio linguaggio o con la mia ritrosia nel caso l’esecuzione prenda una piega troppo prevedibile, comoda, banale; questo scontro può generare tensione, e spesso proprio quel procedimento erroneo. Che sia frutto di un corto-circuito della mia tecnica, di un raptus o di un gesto volontario, il mio lavoro consiste nel “significare” questo aborto, o aborto mancato, e organizzare il brano di conseguenza. Va fatta distinzione, però, fra i famosi “errori sbagliati” e gli “errori giusti”. Nell’improvvisazione non premeditata, quando gli “errori” si succedono con frequenza, è importante per me non cedere a quella forma di astrattismo che porta ad accettare acriticamente qualsiasi cosa; l’improvvisazione “aperta”, nella quale si è disposti ad includere di tutto, annulla il rischio: la metafora con il lancio dei dadi richiamata dalla musica “aleatoria” ha senso se il rischio di sbagliare è reale. Se l’esito del lancio è sempre positivo, non c’è più rischio e ogni gesto è decorativo e intercambiabile. Personalmente, preferisco perdere molti brani potenzialmente interessanti (molte volte basta un errore sbagliato, o uno di troppo, per compromettere irrimediabilmente l’esecuzione) che sacrificare quella tensione.

Parliamo di marketing. Quanto pensi che sia importante per un musicista moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?

È un lavoro assolutamente determinante, che richiede molte risorse, tempo e motivazione.
Naturalmente, il fatto che sia fondamentale per la “carriera” di un musicista non significa che abbia rilevanza sulla qualità della musica.

Come vedi la crisi del mercato discografico, con il passaggio dal supporto digitale
al download in mp3 e tutto questo nuovo scenario? Tutta questa passiva tendenza
ad essere aggiornati e possedere tonnellate di mp3 che difficilmente potranno essere ascoltati con la dovuta attenzione non comporta il rischio di trascurare la reale assimilazione di idee e di processi creativi? Ti faccio questa domanda anche il relazione al fatto che AlchEmistica è una netlabel che distribuisce solo musica in formato mp3 ..

In genere simpatizzo per le crisi in quanto momenti interessanti di necessaria e chirurgica rottura. Certamente, tutta questa passiva tendenza ad essere aggiornati e accumulare mp3 porta a trascurare la reale assimilazione di idee e processi creativi, e a considerare la musica come un oggetto prodotto al solo fine di essere fruito superficialmente. L’eccesso di offerta inibisce il desiderio e banalizza l’esperienza musicale: i dischi per i quali si ha un reale appetito non possono essere e non sono così tanti.
In ogni caso, l’effettiva differenza qualitativa (hi-fi, lo-fi) fra CD originali, dischi scaricati illegalmente o scaricati su netlabel è secondaria: tutto sta nella capacità di un individuo di capire quello di cui ha veramente bisogno e quello che è trascurabile. Se sento il bisogno di ascoltare una certa opera nel minimo dettaglio, me la procuro nel supporto idoneo e l’ascolto con un impianto adeguato; se di un altro artista mi interessa una panoramica generale, mi faccio un misto con mp3 scaricati. Se voglio conoscere il lavoro di un chitarrista di cui non si trova nulla nei negozi e su emule, avere del materiale a disposizione su una netlabel può essere utilissimo.

Ci consigli cinque dischi per te indispensabili, da avere sempre con sè.. i classici cinque dischi per l‘isola deserta? Che musiche ascolti di solito?

Negli ultimi anni sempre più musica classica, poi musica per interprete solista di ogni genere, musica tradizionale Giapponese, rock in varie salse, dischi di artisti o gruppi che conosco personalmente… Ribot è sempre una gran fonte di ispirazione, così come Buckethead un divertente diversivo. Non sono onnivoro, e al momento i dischi che ho messo da parte dentro scatoloni vari sono molto di più di quelli che tengo a portata di mano.
Alcuni album che ascolto sempre più che volentieri sono le variazioni Goldberg nell’incisione di
Gould dell’81, la Lectura Dantis di Carmelo Bene, i concerti per violoncello di Šostakovič eseguiti da Rostropovich…

Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli ti senti di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?

Non posso dare consigli a musicisti molto più preparati di me! Spero solo che sempre più spesso bravi chitarristi collaborino con bravi compositori, invitandoli a scrivere per lo strumento, cercando i punti nodali più critici e stimolanti nel dialogo fra tradizione e evoluzione.

Con chi ti piacerebbe suonare e chi ti piacerebbe suonare? Quali sono i tuoi prossimi progetti? Su cosa stai lavorando?

Mi piacerebbe trovare i musicisti adatti per un trio elettrico – batteria/percussioni e basso, o un’altra chitarra – in grado di utilizzare sonorità vicine al rock con un approccio quasi cameristico; in realtà non so se esistono musicisti con le caratteristiche specifiche di cui avrei bisogno… Mi piacerebbe fare qualche “traduzione”: trasporre sulla chitarra ed eseguire alcune cose di Erik Friedlander, Anthony Braxton, Tom Cora… Sto dando gli ultimi ritocchi a un nuovo album solista interamente acustico, composto per metà da composizioni istantanee e metà da brani scritti.

Ultima domanda, proviamo a voltare verso la musica le tre domande di J.P.Sartre
verso la letteratura: Perché si fa musica? E ancora: qual è il posto di chi fa musica
nella società contemporanea? In quale misura la musica può contribuire all’evoluzione di questa società?

Si fa musica per tanti motivi; quello che al momento mi sembra più degno è la ricerca di una
Sensazione estrema e rivelatoria, che trascenda l’ordinarietà. Questo non esclude la ricerca di una qualche forma di Bellezza.
Nella società – non solo contemporanea – c’è posto per chi lavora, produce e consuma; credo che un musicista possa tranquillamente essere lavoratore, produttore e consumatore, ma la componente più vitale, importante e indicibile del fare musica non è contemplata in tutto questo – non è parte dell’essere civile. Infine, se la musica contribuisce all’evoluzione di questa società vuol dire che è asservita ad essa. Mi auspicherei piuttosto una musica portatrice di crisi, oblìo, trascendenza, catastrofe!

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