lunedì 28 febbraio 2011

Intervista a Lucia D'Errico con Andrea Aguzzi


Andrea Aguzzi: La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il tuo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suoni o hai suonato? Qual è il tuo background musicale?

Lucia D'Errico: Fin da piccola ho sempre ascoltato tanta musica, soprattutto classica, e la chitarra l'ho vista in mano a mio papà che la suona da amatore. Mia sorella ha iniziato a suonare il piano molto presto, ma nonostante questa enorme ricchezza di stimoli non ho considerato mai l'idea di suonare uno strumento fino all'età di undici anni: avevo cose più importanti da fare io – ovviamente, giocare e spassarmela! Poi galeotti furono i Beatles: ascoltando un loro disco mi sono incaponita a voler riprodurre le note di “Yesterday” su una chitarra che mio papà aveva comprato d'occasione (e che conservo ancora con affetto) e da allora non mi sono mai fermata. Insomma, posso dire di non aver mai smesso di giocare, con o senza una chitarra in mano...
Il mio strumento principale è la chitarra classica, ma negli anni mi sono divertita a sperimentare alcune sue declinazioni: elettrica, basso, steel-string, oud, balalaika, charango… Interessata alla composizione, ho imparato a mettere le mani sul pianoforte, col beneficio di un approccio del tutto diverso all’armonia e alla scala musicale. In qualche momento d’ozio mi diverto a suonare il tamburello – strumento affascinante e infinito; e per ultimo, cosa che mi è servita molto, ho imparato qualche rudimento del canto. Suono da cinque anni su una Novelli in abete e acero, e da due su una Fender Strato.
Come già ti ho detto la musica – chiamiamola – classica ha sempre avuto un ruolo preponderante nei miei ascolti. Ma sono curiosa verso ogni manifestazione musicale; la mia ultima passione è la musica di culture molto diverse dalla mia. E se negli anni del conservatorio mi sono un po’ allontanata dagli ascolti “rockettari” dell’adolescenza, oggi ci torno spesso e volentieri con rinnovata curiosità e divertimento. Non a caso alcuni tra i miei compositori preferiti sono quelli che coniugano la ricerca sonora e formale a generi popolari o commerciali: Romitelli, Ligeti, Bartók, Mahler, Schubert…

Andrea Aguzzi: Ti sei diplomata al Conservatorio "B. Marcello" di Venezia sotto la guida di Tommaso De Nardis e stai conseguendo un corso di alta specializzazione in performance presso il conservatorio di Birmingham (UK) focalizzandoti sul repertorio contemporaneo. Come ti trovi in Gran Bretagna? Vuoi parlarci di questo Master?

Lucia D'Errico: Tommaso De Nardis è stato una grande guida, sia dal punto di vista umano che artistico: in Italia quindi sono stata molto fortunata. La sua visione didattica impareggiabile e per certi aspetti avanguardistica l’ho ritrovata con piacere nell’organizzazione del conservatorio di Birmingham, ma stavolta elevata ad istituto. Purtroppo un ottimo insegnante non basta: le idee hanno bisogno di un ambiente favorevole in cui crescere, e quello dei conservatori italiani è ancora molto lontano dal clima collaborativo, vitale e propositivo che sto respirando a Birmingham – anche se le persone che si sforzano di cambiare le cose in questo senso sono tante, e spero avranno grande fortuna. Il master è una specie di tour de force per performers: tre grandi concerti, di cui uno con orchestra, più mille occasioni di mettersi alla prova. E seminari su psicologia per interpreti, sviluppo professionale, aspetti della performance… ho appena iniziato e l’impressione è che ci sia ancora moltissimo da scoprire.

Andrea Aguzzi: Fai parte del FramEnsemble che abbiamo già intervistato nel blog e suoni in duo con Michela Caser, come va l’attività dell’Ensemble e del Duo?

Il gruppo sta crescendo sempre più e per il futuro i progetti sono tanti, e per me molto intriganti. Non si tratta solo di proporre musica nuova, ma di collegare la nostra attività musicale ad altre realtà, in modo da farsi incuriosire il più possibile, e incuriosire a nostra volta. Questa visione di Frame collima in gran parte con la mia: facciamo musica, ma con essa parliamo di tante altre cose. Vogliamo insomma uscire dalla torre d’avorio, e magari cominciare a minarne le basi. Una musica che parla solo a se stessa e di se stessa può essere bella, ma diventa autistica.
Con Michela, sempre all’interno dell’ensemble, abbiamo avuto bellissime esperienze, tra cui una breve tournée in Argentina lo scorso ottobre. In programma insieme, una partecipazione al Festival 5 Giornate a Milano.

Andrea Aguzzi: Hai realizzato di recente una uscita discografica con AlchEmistica, la nostra netlabel dedicata alla musica classica e contemporanea, ci vuoi parlare di questo tuo progetto? Come ti sei trovata a dover improvvisare e come mai hai dato quei titoli “at school they held me under a bucket of dirty water” per il brano per chitarra elettrica e “Disco machine” per quello per chitarra classica? A scuola ti facevano davvero così tanti gavettoni?

Lucia D'Errico: Il progetto con AlchEmistica mi ha permesso una scoperta. Sono da sempre stata poco propensa all’improvvisazione (sono molto legata alla pagina scritta, e un foglio bianco mi ha sempre fatto un po’ di paura), ma ultimamente le sfide mi piacciono: e, accolta la sfida, ho trovato un mondo di potenzialità inesplorate che sicuramente feconderà anche il mio lavoro come interprete. La cosa che ho apprezzato di più in questo esperimento è stata la capacità di emancipare l’errore… ma ne parlerò più avanti.
Nel primo brano, per chitarra elettrica, sono andata alla ricerca di suoni non solo poco “chitarristici”, ma anche poco “umani”, derivati in parte da memorie uditive tecnologiche, in parte da un'immaginazione vagamente acquatica, o meglio amniotica. Il titolo – per mia fortuna – non l'ho tratto dalla mia autobiografia! Una mia grande passione è quella della citazione, in questo caso letteraria. Ho scelto questa perché, oltre ad avere un bellissimo ritmo, nel libro da cui è tratta riassume un vissuto sotterraneo e mai rimosso: era questa l'ispirazione di partenza. Ma non ti dirò il titolo del libro! Mi piace troppo l'idea che chi la legge possa rintracciarla, chissà quando e per caso, con quel libro tra le mani... anche se magari una semplice ricerca su google vanificherà la poesia dell'incontro fortuito. Ma sto divagando...
Il secondo brano è invece per chitarra classica – diciamo così – preparata. Tutto si basa su un ritmo ostinato e meccanico a cui si avviluppa una triade maggiore “stonata”, tarlata; un materiale di base così privo di grazia e intelligenza da farmi pensare con divertimento a certa disco music... è stato un gusto squinternare un po' alla volta l’ottusa ripetitività dell'inizio.

Andrea Aguzzi: Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “…Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novecento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.” Tu suoni sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo… ti riconosci in queste parole?

Lucia D'Errico: Sono felice di non aver più bisogno di pormi il problema. Secondo me una musica che è stata sperimentale, fosse pure nell’antica Grecia, continua ad esserlo; ed io continuo ad approcciarla come tale. Certo credo che non affrontare – o non voler accettare, accade anche più spesso – la musica dei nostri tempi sia un grande peccato per un musicista (nel senso: che peccato!). Capire ed interpretare l’oggi è il miglior strumento che conosco per sapersi immedesimare nello ieri. E se dobbiamo considerare Beethoven e Chopin come reliquie, mostri da teche, piuttosto che come sono stati – carne vivente, “carne viva” e a loro volta oggetti di scandalo – beh, tanto vale non suonarli e basta: meglio l’oblio di una seconda sepoltura.
Per il resto, un albero è fatto di foglie e di radici, entrambe parti indispensabili alla sua esistenza.

Andrea Aguzzi: Hai partecipato a diversi corsi e masterclasses di perfezionamento sul repertorio contemporaneo con Elena Càsoli, Marco Cappelli, Zoran Dukic, Carlos Molina, Vladislav Blaha, Helen Sanderson e hai studiato composizione con Riccardo Vaglini. Che ricordi hai di queste masterclass e di questi insegnanti? Chi ti ha colpito di più?

Lucia D'Errico: Da ogni incontro si riceve qualcosa, ma di queste esperienze apprezzo gli stimoli umani quanto e più ancora di quelli musicali. Detto questo, ho un bellissimo ricordo dell’incontro con Elena Càsoli. Parlare delle sue doti musicali è qui superfluo; la cosa per cui mi ha colpito è stato il rispetto e la profondità con cui si rapporta alla musica (tutta la musica), al suo lavoro, e a ogni cosa, sì devo dire a ogni cosa. Nella giornata del workshop che ho fatto con lei siamo andati tutti a fare un picnic su un prato di montagna. A un certo punto un enorme ragno si è messo a passeggiare sulla nostra tovaglia: tutti (io per prima) ci siamo alzati con ribrezzo, mentre lei si è chinata e ha raccolto quel ragno come fosse un pulcino! Ecco, ho pensato: se tutti fossimo capaci di comportarci così con le – apparenti – bruttezze che ci circondano, chinarci e prenderle in mano, il mondo non avrebbe tanti problemi. Quest'immagine riassume la grandezza dell'impressione che Elena ha avuto su di me, e forse l'atteggiamento che la rende così profonda e magnetica anche in musica.

Andrea Aguzzi: Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?

Lucia D'Errico: Il mio lavoro si basa per grandissima parte sull’indagine e sulla pianificazione: la tornitura di gesti e suoni, la scultura delle intenzioni. Improvvisare per un interprete può essere pericoloso: quando il lavoro è così difficile, scavare un solco solido dove i movimenti di muscoli e mente si possano incuneare è, almeno per il mio modo di lavorare, fondamentale. Condurre un lavoro parallelo sull’improvvisazione però può dare un vantaggio, e non da poco; quello cioè di sondare la propria immaginazione, la propria spontaneità, andare a verificare cosa la propria memoria muscolare e uditiva va a ripescare per rielaborarlo e riproporlo. Una grande riflessione per qualunque interprete, anche il più classico.

Andrea Aguzzi: Oltre che alla chitarra classica, ti dedichi anche alla chitarra elettrica e chitarra basso, e ti stai interessando alla musica mediorientale attraverso la conoscenza dell'oud, come mai questo interesse per strumenti fuori dai canoni “classici”? Cosa pensi di suonare con l’oud? Te lo chiedo perché amo molto la musica mediorientale e l’oud e sono dei mondi musicali vastissimi…

Lucia D'Errico: Chitarra elettrica e basso sono state due grandi amori adolescenziali – difficile sfuggire al loro fascino a quell’età. Dopo gli studi classici le ho riprese in mano per alimentare la mia voglia di novità e la mia curiosità, e mi servono a ossigenare l’aria un po’ viziata di accademismo che di tanto in tanto sento aleggiare attorno allo strumento classico. E poi il repertorio, soprattutto quello per elettrica, è così bello e ricco che non ho potuto resistere, e proprio in questi mesi lo sto esplorando con gran piacere.
Sono stata folgorata dall’oud quando ho avuto l’opportunità di assistere ad un concerto del virtuoso egiziano Farhan Sabbagh; questa rivelazione di uno strumento così versatile è andata a sposarsi con la mia attrazione per la musica microtonale (un altro dei miei compositori preferiti è Scelsi). E così, dopo aver fatto togliere i tasti ad una mia vecchia chitarra con scarsi risultati, ho ricevuto in regalo un oud sul quale mi sto divertendo. Per ora sto cercando di conoscere la musica mediorientale e dell’area mediterranea, concedendomi qualche incursione nel repertorio medievale. Presto spero di ottenere una tecnica adeguata a proporre questo strumento a qualche compositore per offrire le sue possibilità anche alla creatività europea.

Andrea Aguzzi: Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?

Lucia D'Errico: Parlando tempo fa di questo con degli amici sono giunta a una curiosa conclusione. A chi lamentava che al giorno d’oggi l’esuberanza di stimoli condurrebbe appunto ad un appiattimento in cui rintracciare segni dell’autenticità e del valore del passato sarebbe difficile se non impossibile, e che i tratti facciali dei nostri tempi sarebbero stati erosi da una specie di indistinta miscela mediatica, ho risposto che forse non è così male considerare questo il volto dei nostri tempi: una specie di rumore bianco, una saturazione degna di Kline o Pollock che può costituire uno scenario poetico in cui muoversi (e di cui questo mio chilometrico periodo fornisce un esempio calzante!). Scherzi a parte, non riesco a considerare la coesistenza di tempi, modi e luoghi così diversi come qualcosa di negativo. Anzi: questo potrebbe servire a evitarci tanti odiosi arianesimi musicali – che, credimi, esistono.

Andrea Aguzzi: Più che una domanda... questa è in realtà una riflessione: Luigi Nono ha dichiarato “Altri pensieri, altri rumori, altre sonorità, altre idee. Quando si ascolta, si cerca spesso di ritrovare se stesso negli altri. Ritrovare i propri meccanismi, sistema, razionalismo, nell’altro. E questo è una violenza del tutto conservatrice.” …ora... la sperimentazione libera dal peso di dover ricordare?

Lucia D'Errico: Liberarsi di se stessi è una beatitudine per pochi. Chi non può o non vuole farlo, è costretto a filtrare le esperienze esterne con la propria percezione. La vedo come una cosa imprescindibile, anzi, forse ritrovare se stessi in un’opera altrui è lo scopo stesso dell’arte. Come dice Proust, “Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.” Non vedo questa come una cosa negativa, perché non siamo fatti di soli meccanismi e razionalismo. In assenza di un sistema che si sovrapponga al nostro io e alla nostra intelligenza, la musica anzi ci permette di indagare noi stessi in maniera salutare. Certo quando indossiamo le lenti deformanti dell’ideologia, qualunque essa sia, il nostro sguardo diventa violenza su tutto – ahimè, non solo sul mondo dei suoni.

Andrea Aguzzi: Qual è il ruolo dell’Errore nella tua visione musicale? Dove per errore intendo un procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...

Lucia D'Errico: Una felice bufala di J. F. Kennedy vuole che l’ideogramma cinese per “crisi” sia composto dalle parole “pericolo” e “opportunità”. La verità – seppure non etimologica – di questo l’ho potuta sperimentare nel mio approccio all’improvvisazione. Non credo che improvvisare significhi sapere esattamente cosa succederà, o forse questo riguarda solo improvvisatori di professione. Penso che il distinguo stia nell’abilità di gestire l’imprevisto, di emancipare l’errore a volontà. Questa è la bellezza dell’errore, sia in musica che nella vita: è la crepa attraverso cui riusciamo ad intravedere un’altra realtà. Certo ogni crepa minaccia distruzione… ma la fragilità del tutto aggiunge fascino e “thrill” a chi sa accettare l’errore come parte dell’esistenza. L’errore insomma può diventare una chiave per un mondo altrimenti sconosciuto.

Andrea Aguzzi: Parliamo di marketing. Quanto pensi che sia importante per un musicista moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?

Lucia D'Errico: Un musicista brillante che non promuove se stesso è come una bellissima lampada che splende sotto un secchio. Sarebbe bello potersi occupare solo della ricerca, ma è necessario – oltre che molto faticoso – distinguersi tra le mille voci che ci circondano. All’estero lo sanno e in molti conservatori (tra cui Birmingham) vengono offerti corsi specifici.

Andrea Aguzzi: Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli ti senti di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?

Lucia D'Errico: Di muoversi molto, fisicamente ma soprattutto con la testa; di amare ciò che si fa, di amare ciò che non si fa, di ascoltarsi, di ascoltare.

Andrea Aguzzi: Con chi ti piacerebbe suonare e chi ti piacerebbe suonare? Quali sono i tuoi prossimi progetti? Su cosa stai lavorando?

Lucia D'Errico: Un sogno che spero di realizzare a breve è di suonare con mia sorella Anna, una pianista straordinaria; la poca compatibilità dei due strumenti ci ha sempre frenato, ma vedremo… Per il resto, spero di collaborare con musicisti che mi stimolino e mi aiutino ad approfondire la conoscenza della mia creatività. Altri progetti: lavorare con artisti provenienti da ambiti extramusicali (arte visiva, letteratura, cinema… e chissà che altro), farmi influenzare, contaminare, innestare e disinnestare… insomma, cambiare.

Andrea Aguzzi: Ultima domanda: Roberto Freak Antoni, il cantante degli Skiantos, ha scritto una volta un libro intitolato “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti”… tanti chitarristi italiani, specialmente se interessati alla musica contemporanea si sono da tempo trasferiti all’estero e lì hanno avviato una carriera impensabile in Italia... pensi di seguire le loro orme?

Lucia D'Errico: Sono convinta che il male dell’Italia non sia né la stupidità né l’ignoranza – nonostante l’immagine che il nostro Paese ultimamente sembra voler dare di se stesso sia quella di una compiaciuta e anabolizzata superficialità. Ma per fortuna la realtà non è (o non è solo) quella che appare in TV: le persone intelligenti e creative sono tante. Credo che il difetto che nel nostro Paese le paralizza sia piuttosto l’abitudine alla lagna: è sempre colpa di qualche oscuro potere se le cose vanno male, e questo atteggiamento dannoso e purtroppo contagioso impedisce di pensare in grande e di agire, in un circolo vizioso di inerzia. Spero che l’esperienza all’estero rafforzi questa mia convinzione, così da tornare in Italia con ancora più voglia di cambiare le cose.

Andrea Aguzzi: Ultimissima domanda, proviamo a voltare verso la musica le tre domande di J.P.Sartre verso la letteratura: Perché si fa musica? E ancora: qual è il posto di chi fa musica nella società contemporanea? In quale misura la musica può contribuire all’evoluzione di questa società?

Lucia D'Errico: Alla prima domanda lascio rispondere a Nietzsche: si fa musica perché senza musica la vita sarebbe un errore. Il posto di chi fa musica è (e non può che essere!) ai margini della società, come dovrebbe essere quello di ogni artista, di ogni filosofo, religioso, insomma, di ogni pensatore. Perché il pensiero, se non è marginale, se non ha la forza di collocarsi sempre nella coda dell’occhio – e quanta ce ne vuole! – indurisce, si fa violenza, si sclerotizza come la corteccia di un albero. Bisogna avere il coraggio e l’umiltà di essere sempre rami verdi… E’ inutile lamentarsi del distacco del pensatore dalle masse: nessun riconoscimento sociale o economico vale il compromesso che un’accettazione su larga scala non può che implicare. L’artista sta fuori, sta “fra”: guarda, commenta, capisce, e se non può o non vuole cambiare il mondo si sforza di cambiare se stesso: e ho detto tutto. E qui rispondo all’ultima domanda: al fatto che la musica possa cambiare la società credo poco. Non l’ha fatto finora, dubito che lo farà mai. Ma la musica ha un grosso potere, quello di cambiare le persone, o almeno di metterle in discussione. E la società è fatta di persone quindi forse…

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