Andrea Aguzzi: La prima domanda è sempre quella classica: come è nato il suo amore e interesse per la chitarra e con quali strumenti suona o ha suonato? Qual è il suo background musicale?
Silvia Cignoli: Credo che parlare di amore per la chitarra nel mio caso non sia del tutto corretto. Considero la chitarra solo un mezzo, il mio mezzo privilegiato per accedere a un mondo personale di suggestioni.
Vengo da una famiglia completamente estranea al mondo dell’Arte, ma furono i miei genitori, con grande intelligenza e sensibilità, a indicarmi la possibilità di cominciare a studiare chitarra. Ma non mi sono mai sentita “solo”chitarrista: ho infatti alle spalle una maturità artistica e un anno di frequenza alla NABA (Nuova Accademia di Belle Arti, con indirizzo Fashion and Textile Design) di Milano. Un giorno, impaziente di acquisire fra le mie mani e dentro di me le capacità per esprimere me stessa, capii che dovevo fare una scelta, e scelsi la musica.
Ricordo, intorno ai dodici-tredici anni, degli ascolti che furono come folgorazioni: i primi furono la “Sagra della Primavera” di Stravinskij e il “Pierrot Lunaire” di Shoeberg. In seguito il “Choro da Saudade” di Barrios. Suonavo la chitarra da un paio d’anni e in seguito mi iscrissi alla Civica Scuola di Musica di Milano e feci i tradizionali esami di Conservatorio.
Attualmente suono una chitarra del bravissimo Angelo Vailati e ne ho suonata per diversi anni una di Lucio Carbone.
A.A.: Ti sei diploma brillantemente come privatista al Conservatorio G. Verdi di Milano e attualmente frequenti il Master of Arts in Music Performance al Conservatorio della Svizzera Italiana di Lugano sotto la guida di Massimo Laura. Come ti trovi in Svizzera? Vuoi parlarci di questo Master?
S.C.: Lugano è nella Svizzera Italiana, per cui molte cose sono simili all’Italia. Tuttavia per molti aspetti si respira un’aria diversa, un ordine maggiore.
Ho scelto di iscrivermi al Master di Lugano principalmente per il fatto che è un conservatorio che presta molta attenzione alla musica contemporanea e perché è centro di iniziative uniche nella branca della musica contemporanea, come per esempio la stagione “Novecento e Presente” o i vari festival gestiti in maniera intelligente, creativa e fresca. Posso dire che questo ambiente mi sta dando la possibilità e le risorse per realizzare i miei progetti, anche quelli meno tradizionali.
E poi c’è l’ottimo rapporto umano-artistico con il mio insegnante principale Massimo Laura.
A.A.: So che stai frequentando, presso l’ IRMus, il corso di chitarra elettrica per la musica contemporanea sotto la guida di Francesco Zago. Trovo eccezionale la presenza di un corso per la chitarra elettrica segno evidente che la musica contemporanea sta ormai appropriandosi di strumenti che appartengono e provengono da altri generi musicali, come funziona questo corso?
S.C.: Eccezionale è anche il fatto che la Scuola Civica di Milano abbia avuto, prima di altri, il coraggio di investire su un corso così “all’avanguardia”. E il fatto che a insegnare sia un bravissimo musicista e compositore, non un chitarrista classico prestato all’elettrica, ma un chitarrista elettrico autentico che (nonostante gli studi di conservatorio) ha sempre fatto parte del mondo del rock contemporaneo e della musica contemporanea in generale.
Il corso prevede lezioni individuali e collettive di chitarra elettrica di repertorio contemporaneo.
A.A.: Hai realizzato di recente una uscita discografica con AlchEmistica, la nostra netlabel dedicata alla musica classica e contemporanea, ci vuoi parlare di questo tuo progetto? Come hai scelto i brani?
S.C.: “Fuoco Pallido” di Francesco Zago e “Nightly” di Andrea Tremolada sono brani a cui sono molto affezionata. Ne ho seguito la nascita e lo sviluppo, li ho studiati, ne ho discusso coi compositori e ho cercato sempre di stabilire un equilibrio fra quello che loro e la loro musica mi chiedevano e quello che io volevo da essa cercando in questo confronto delle assonanze, delle connessioni con il mio personale mondo immaginativo ed emozionale. Lavorare a contatto coi compositori è una delle cose che preferisco!
La Fantasia su Temi del Trovatore di Mertz mette in luce il mio grande interesse per l’opera lirica. In passato andavo spessissimo alla Scala, e sono sempre rimasta affascinata da quell’abnorme macchina che è il teatro d’opera: le scene, i costumi, i drammi, i cantanti che sono anche attori, le trame pittoresche delle opere italiane, il grande sipario rosso..
“…che move il sole e le altre stelle” di Simone Fontanelli è un brano che amo perché evidenzia un aspetto dolce ed etereo della chitarra e del mio modo di godere lo strumento, fatto di risonanze, piccole cellule, pochi palpiti, densità dell’assenza, silenzi morbidi sopra e sotto i suoni.
A.A.: Berio nel suo saggio “Un ricordo al futuro” ha scritto: “.. Un pianista che si dichiara specialista del repertorio classico e romantico, e suona Beethoven e Chopin senza conoscere la musica del Novecento, è altrettanto spento di un pianista che si dichiara specialista di musica contemporanea e la suona con mani e mente che non sono stati mai attraversati in profondità da Beethoven e Chopin.” Tu suoni sia un repertorio tradizionalmente classico che il repertorio contemporaneo … ti riconosci in queste parole?
S.C.: Credo che, a dispetto di quanto sostenevano i futuristi, in musica, in arte, in tutto, il passato è qualcosa che è indispensabile conoscere. Inoltre la musica, come l’arte, non è fatta da compartimenti stagni. Per cui l’uomo, come osserva acutamente Sciarrino nel suo libro “Le Figure della Musica”, per costruire un’opera d’arte o un brano musicale (ma anche un’architettura o una decorazione) non fa altro che mettere in moto dei processi e dei meccanismi costruttivi che spesso evidenziano similitudini di forma e sviluppo anche in epoche storiche e contesti diversissimi. Per cui penso che un musicista dotato di un minimo di cultura e sensibilità possa calarsi senza troppi problemi in un brano rinascimentale piuttosto che in uno contemporaneo.
Dieci anni di studi tradizionali, come quelli da me compiuti, e la frequenza a corsi più specifici permettono di approfondire un po’ tutte le epoche, ma certo non bastano per ritenersi degli esperti di una o di un’altra epoca. Nel mio caso al momento sto seguendo quella che è la mia grande passione da quando ero piccola, la musica contemporanea. Anche se continuo ad amare molto suonare gli autori “classici” della chitarra, che formano per ora la parte preponderante del repertorio che eseguo con la bravissima flautista Cinzia Cruder, con la quale formiamo il Duo Antilia.
A.A.: Hai partecipato a diversi corsi e masterclasses di perfezionamento sul repertorio dell’Ottocento, sul Tango, sulla musica antica, su quella contemporanea e sull’improvvisazione con i Maestri Maccari e Pugliese, Javier Pèrez Forte, Massimo Lonardi, Elena Càsoli, Arturo Tallini, Sharon Isbin, Aldo Minella. Hai partecipato a corsi estivi tenuti dai maestri Arturo Tallini, Giuseppe Pepicelli, Agostina Mari, Vittorio Casagrande, Enea Leone, Roberto Masala. Che ricordi hai di queste masterclass e di questi insegnanti? Chi ti ha colpito di più?
S.C.: Inutile dirlo, ognuno di questi grandi artisti mi ha lasciato qualcosa di importante. Con la loro musica, la loro esperienza, il loro atteggiamento verso le cose, con frasi che hanno illuminato la mia ricerca come musicista.
Ma la persona che senza ombra di dubbio ha contribuito maggiormente alla mia formazione umana e artistica è colei che è stata la mia insegnante di chitarra per dieci anni, Paola Coppi, che mi ha accompagnata, instancabile, forte, generosa, appassionata, esigente, comprensiva, al mio diploma. Paola è stata una figura importantissima, capace di vedere dentro e oltre me, capace di essere severa e affettuosa allo stesso tempo, di non oscurare mai la mia personalità artistica ma di valorizzarne l’unicità. Dotata di una sensibilità umana e musicale fuori dal comune, è capace di far comprendere la Musica senza usare paroloni o filosofie, ma riuscendo a far parlare le dita dei suoi allievi. Non sarei mai stata quella che sono senza la sua preziosa presenza.
A.A.: Quale significato ha l’improvvisazione nella tua ricerca musicale? Si può tornare a parlare di improvvisazione in un repertorio così codificato come quello classico o bisogna per forza uscirne e rivolgersi ad altri repertori, jazz, contemporanea, etc?
S.C.: Il primo approccio con l’improvvisazione fu quest’estate a un corso estivo con Arturo Tallini. Ero completamente digiuna in materia e lui ha saputo esattamente come farmi entrare nello spirito dell’improvvisazione, ed è stato molto, molto divertente!
Per ora sto solo “assaggiando” questa pratica (a febbraio parteciperò a un concerto per la stagione Novecento e Presente a Lugano dove dovremo improvvisare su musiche di Caccini, Stefani, Bartok), ma spero di riuscire presto ad approfondire maggiormente l’argomento.
Non credo si possa parlare di vera improvvisazione nel repertorio classico anche se, allargando il significato del termine, in un certo senso in ogni concerto e ogni volta che suono c’è un’ alta dose di imprevedibilità, per cui potrei affermare che la mia interpretazione dei brani che eseguo è, molto spesso, improvvisata.
Certo nella musica antica, nel Barocco e fino all’Ottocento sappiamo bene che spesso le note scritte erano molte meno di quelle che poi uscivano dalla bocca di un cantante o dall’arco di un violino, ma non dobbiamo dimenticare che queste prassi erano normali all’epoca, quindi erano in un certo senso codificate ed entravano a far parte del “gergo” dei musicisti. Per cui mi sembra un po’ azzardato parlare di vera e propria improvvisazione che, nel mio immaginario, ha una connotazione molto più libera.
A.A: Ho, a volte, la sensazione che nella nostra epoca la storia della musica scorra senza un particolare interesse per il suo decorso cronologico, nella nostra discoteca-biblioteca musicale il prima e il dopo, il passato e il futuro diventano elementi intercambiabili, questo non può comportare il rischio per un interprete e per un compositore di una visione uniforme? Di una “globalizzazione” musicale?
S.C.: Ci troviamo in un’epoca privilegiata rispetto al passato proprio perché possiamo disporre facilmente di materiale storico. Prima l’interesse per la riscoperta del passato era molto inferiore rispetto a oggi e fino all’avvento delle nuove tecnologie (cd, internet,..) anche lo studio era molto meno agevole.
La fruibilità di spartiti e registrazioni che circolano in rete e nei negozi permettono ad ognuno di noi di avere fra le mani molto facilmente spartiti e registrazioni, ma tutt’altra cosa è capirle a fondo. Per fare questo è necessario studio e approfondimento. Ed esistono sempre più persone che decidono di dedicarsi allo studio della musica del passato e che ci mettono a disposizione il frutto del loro lavoro.
In conclusione, quella della globalizzazione è una componente della nostra epoca dalla quale non possiamo prescindere, ma che dobbiamo saper sfruttare a favore della nostra conoscenza e della nostra arte.
Se un musicista o compositore ha alle spalle una certa sensibilità e coscienza musicale, questo problema non esiste.
A.A.: Più che una domanda .. questa è in realtà una riflessione: Luigi Nono ha dichiarato “Altri pensieri, altri rumori, altre sonorità, altre idee. Quando si ascolta, si cerca spesso di ritrovare se stesso negli altri. Ritrovare i propri meccanismi, sistema, razionalismo, nell’altro. E questo è una violenza del tutto conservatrice.” … ora .. la sperimentazione libera dal peso di dover ricordare?
S.C.: Esattamente per quanto succede nel rapporto con il passato (non possiamo prescindere da esso, dalla sua memoria conscia o inconscia), dal rapporto con la forma figurativa in arte (non possiamo creare nulla, neanche la forma più astratta, che non fondi le proprie radici nella nostra memoria immaginativa), anche la sperimentazione più ardita in musica è soggetta a una certa connessione con le reminescenze storiche, psicologiche, filosofiche, sociologiche, emotive del passato. Quindi ricordare è implicito anche nell’atto di una creazione contemporanea. La differenza è quella che i compositori di oggi sono maggiormente consapevoli della loro scelta di guardare oppure di slegarsi dal passato.
Ciò di cui parla Nono sembra più riferirsi a un certo tipo di atteggiamento che riguarda spesso le persone che si raffrontano con i linguaggi contemporanei. Riguarda principalmente coloro che credono che la musica debba essere in un determinato modo, debba divertire, intrattenere, rilassare, debba essere riconoscibile e riconosciuta e, quindi, rassicurante.
Ma la vera contraddizione sta nel fatto che c’è molto di più di noi stessi nell’arte contemporanea che in quella del passato. C’è tutto quello che noi siamo ora, nella nostra epoca. C’è tutto quello che di noi stessi riusciamo a vedere poiché quasi per definizione l’Arte è uno specchio su di noi. E questo emoziona, stordisce, incanta, affascina. Allora perché molte persone, anche musicisti, hanno questo rifiuto nei confronti dei linguaggi contemporanei se proprio in questi più che in altri essi si potrebbero riconoscere? La risposta potrebbe essere: perché in questi si potrebbero riconoscere. E il riconoscersi, il guardare a fondo dentro se stessi, implica fatica. Inoltre, per citare nuovamente Sciarrino, in ogni innovazione è presente una dose di trasgressione, e questo spaventa, perché automaticamente “aggredisce” le certezze di chi la recepisce. Non a caso un’enorme quantità di artisti del passato furono incompresi o sottovalutati nella loro epoca. Inoltre per le opere della contemporaneità ci deve essere, da parte di chi le recepisce, un maggiore senso critico, il coraggio di credere o non credere nel valore di una determinata opera, sopra la quale la storia, il giudizio degli esperti, il vissuto dell’uomo non hanno ancora fatto il loro corso. Per fare questo non è necessario altro, secondo me, che avere mente, orecchie e cuore aperti.
A.A.: Qual è il ruolo dell’Errore nella tua visione musicale? Dove per errore intendo un procedimento erroneo, un’irregolarità nel normale funzionamento di un meccanismo, una discontinuità su una superficie altrimenti uniforme che può portare a nuovi sviluppi e inattese sorprese...
S.C.: Errore può essere un’interferenza, due o più elementi che prima erano in gioco e poi arrivano a scontrarsi, in una collisione che genera nuova materia.
E’ proprio l’Errore materia prima per la creazione della musica Glitch, che basa la propria costruzione sull’utilizzo di errori digitali e analogici.
Coloro che hanno esperienza di improvvisazione sanno bene quanto da un errore possa nascere una nuova via creativa, e quanto questo possa dare una svolta al corso di un’esecuzione.
A.A.: Parliamo di marketing. Quanto pensi che sia importante per un musicista moderno? Intendo dire: quanto è determinante essere dei buoni promotori di se stessi e del proprio lavoro nel mondo della musica di oggi?
S.C.: Penso che sia molto importante essere in grado di autopromuoversi, poter quindi indirizzare in modo efficace le informazioni su chi siamo e cosa facciamo a chi pensiamo possa essere interessato. A farlo bene, insomma, può diventare un vero e proprio lavoro. Il problema è però che spesso non siamo preparati a farlo.
A.A.: Il Blog viene letto anche da giovani neodiplomati e diplomandi, che consigli ti senti di dare a chi, dopo anni di studio, ha deciso di iniziare la carriera di musicista?
S.C.: Non so se mi sento nella condizione di dare consigli, tuttavia trovo, a un certo punto del proprio percorso, particolarmente importante chiedersi che ruolo si ha o si vuole avere rispetto a ciò che si è scelto di fare, e che apporto si può dare, nel proprio piccolo, alla musica, al di là del proprio, naturale, desiderio di successo. Penso che trovare una risposta a queste domande sia indispensabile per chiunque voglia intraprendere una carriera artistica.
Inoltre cercare sempre di valorizzare la propria originalità, evitare il rischio di appiattimento generato da certi ambienti chitarristici chiusi, dal continuo riproporre i soliti pezzi di repertorio, dalla smania di vincita dei concorsi che, come spesso sappiamo, premiano maggiormente musicisti tecnicamente perfetti ma senz’anima.
A.A.: Con chi ti piacerebbe suonare e chi ti piacerebbe suonare? Quali sono i tuoi prossimi progetti? Su cosa stai lavorando?
S.C.: I pezzi che desidero maggiormente suonare non sono ancora stati scritti: mi vedo dentro la musica di oggi a prestare le mie mani a chi crea musica ora. Fra i pezzi già composti però mi vengono in mente subito due titoli: “Professor Bad Trip” di Fausto Romitelli e le “Quattro Danze Macabre” di Nadir Vassena. Inoltre spero di avere presto a che fare con musiche di Giorgio Colombo Taccani e Fabio Vacchi.
Per quanto riguarda il mio progetto più imminente sto cominciando a organizzare il mio recital
di fine master (interamente su brani contemporanei, uno di questi in fase di scrittura), che sarà
composto da una serie di performance interdisciplinari tante quanti sono i pezzi che suonerò. Per ogni brano ho pensato a qualcosa che potesse distogliere lo spettatore dalla sensazione di dover assistere a un concerto inteso in modo tradizionale, ma che comunque avesse un legame forte col pezzo. Ci saranno attori, video, proiezioni, cura del gesto e dei movimenti dei musicisti, cura delle luci e utilizzo del buio e dei costumi.
Dopo quest’ultimo, intenso, anno di Master credo che avvertirò la necessità di sviluppare o
riprendere aspetti che fino ad ora non ho avuto il tempo di coltivare: mi piacerebbe studiare un minimo di recitazione e riprendere a lavorare un po’ anche con l’immagine.
Continuerò sicuramente a portare avanti il Duo Antilia con Cinzia Cruder ma parallelamente vorrei cominciare a formare una squadra di persone con intenti simili ai miei per proseguire a lavorare su progetti interdisciplinari, cosa che ho sempre sentito di voler fare.
A.A.: Dato che ci scambiamo spesso le letture .. cosa stai leggendo adesso e cosa ci consigli?
S.C.: In questo momento sto leggendo “Le figure della musica” di Sciarrino.
Fra i libri che consiglierei c’è sicuramente “Lo spirituale nell’arte” di Kandinskj, un libro secondo me di importanza capitale scritto da un pittore illuminato, rivoluzionario, ma che parla a tutti gli artisti.
Letture indimenticabili sono inoltre i saggi di Paolo Repetto, in particolare “La Visione dei Suoni”, raccolta di articoli che trattano dei parallelismi profondi fra compositori e pittori o architetti, raccontati con delicatezza e grandissima poesia.
Altre letture che consiglio sono: “Il resto è rumore” di Alex Ross, “Il paesaggio sonoro” di Murray Shafer, “Musicofilia” di Oliver Sacks, “Musica e Pittura” (Shoenberg e Kandinskj).
A.A. Ultima domanda: Roberto Freak Antoni, il cantante degli Skiantos, ha scritto una volta un libro intitolato “Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti” … tanti chitarristi italiani, specialmente se interessati alla musica contemporanea si sono da tempo trasferiti all’estero e lì hanno avviato una carriera impensabile in Italia .. pensi di seguire le loro orme?
S.C.: Al momento i miei legami lavorativi e di studio si tendono fra Milano e Lugano. Non ho intenzione, per ora, di trasferirmi in via stabile all’estero, poiché sento di non aver esaurito le mie possibilità qui. Ma mi piacerebbe lavorare in Svizzera e rimango aperta a qualsiasi possibilità.
A.A.: Ultimissima domanda, proviamo a voltare verso la musica le tre domande di J.P.Sartre verso la letteratura: Perché si fa musica? E ancora: qual è il posto di chi fa musica nella società contemporanea? In quale misura la musica può contribuire all’evoluzione di questa società?
S.C.: Si fa musica principalmente per necessità interiore.
La seconda e la terza domanda sono assimilabili: il posto di chi fa musica nella società contemporanea è ovunque: come schematizza Kandinsky, la società può essere rappresentata come un triangolo suddiviso in diversi fasci orizzontali in cui si collocano rispettivamente le persone con diversi livelli di consapevolezza. Esso rappresenta la vita spirituale della società. In ogni sua fascia sono presenti gli artisti, ma se il loro prodotto è di contenuto impuro o non elevato può far precipitare un livello superiore ad uno inferiore: non per forza questo triangolo avrà un movimento di ascesa, anzi ci sono periodi di decadenza spirituale, ovvero di staticità artistica, in cui gli artisti tendono a riprodurre gli stessi oggetti o le stesse idee. E’ il caso per esempio di molta musica commerciale, la cui banalità e i cui contenuti scontati relegano le persone delle fasce inferiori del triangolo a uno stato basso di consapevolezza, senza dar loro la possibilità di salire a un livello superiore del triangolo.
Rispettare sterilmente le tecniche tradizionali dà luogo a opere d’arte vuote, come anche stravolgerle inutilmente. Gli artisti hanno quindi una grande responsabilità verso se stessi e verso la società, perché, come dice Kandinsky, del loro pane spirituale la società si nutre, perché ne sono lo specchio profondo.